Cambiare interfaccia utente: non è sempre una buona idea

Interfacce utente

Vi  sarà capitato di cambiare telefonino e “trovarvi male” con il nuovo modello che sulla carta vantava invece caratteristiche mirabolanti. Oppure di aggiornare un software che usavate da anni e trovarvi a “litigare” con la sua ultima versione che vi dà l’impressione di complicare ciò che prima era semplice. Ad esempio, conosco diverse persone che sono passate dalle vecchie versioni di Office (basate su menu tradizionali) a quelle più recenti (basate su un agglomerato di vari tipi di controlli), lamentandosi per parecchi mesi di “metterci più tempo a trovare le cose”.

Questi fenomeni che per l’utente comune rimangono confinati alla sfera delle sensazioni e di cui alcuni utenti tendono erroneamente ad attribuirsi la responsabilità (“E’ colpa mia, non sono molto esperto/a di strumenti informatici…”), hanno una spiegazione profonda  (che dovrebbe far rivedere il giudizio severo che l’utente “inesperto” formula su di sé). Per capirli, dobbiamo per prima cosa considerare come ognuno di noi acquisisce l’abilità di usare degli strumenti. Pensiamo all’esperienza che abbiamo avuto quando abbiamo imparato ad andare in bicicletta. Le prime volte, la nostra attenzione era totalmente assorbita da numerosi dettagli su cui ragionavamo in modo conscio (come sto tenendo le mani?, come devo muovere i piedi?, sto seduto oppure in piedi?, sto perdendo l’equilibrio?, dov’e’ il freno?, …). Da un punto di vista cognitivo, questo viene chiamato un processo controllato. Poi, a furia di ripetere sempre le stesse azioni, esse hanno quasi magicamente richiesto una sempre minor attenzione da parte nostra fino ad arrivare al punto in cui – quando saliamo su una bici – le nostre mani, piedi e le azioni necessarie a mantenere l’equilibrio e correre avvengono in modo automatico consentendoci di lasciarle andare avanti “da sole” e dedicare la nostra attenzione ad altro (pensare a cosa faremo stasera, sostenere una conversazione con un altro ciclista, guardare il panorama, …). Cognitivamente, si dice che al processo controllato si è sostituito un processo automatico.  E la stessa cosa avviene quando impariamo le sequenze d’uso di un telefonino o di un software.

Al passaggio da controllato ad automatico corrispondono dei reali cambiamenti fisici nel nostro cervello: la ripetizione di sequenze di azioni va a strutturare un po’ alla volta delle reti che hanno il compito di velocizzare l’esecuzione di quelle sequenze di azioni, automatizzandole così da non richiederci di ragionare esplicitamente su di esse.  I processi automatici hanno quindi il grosso vantaggio di renderci estremamente efficienti e di diminuire il nostro carico mentale, ma anche un grosso svantaggio: le reti che si sono fisicamente create nel nostro cervello non si possono annullare o riprogrammare in un attimo. Quindi, se vengono introdotte modifiche al contesto in cui operiamo, i processi automatici non sono in grado di adattarsi facilmente (sono rigidi) e cercano di fare quello per cui sono stati allenati ad essere efficienti, anche se non è più appropriato alla nuova situazione.  Così, quando cambiamo telefonino o software, non solo dobbiamo imparare le nuove sequenze d’uso ragionandoci sopra ed agendo in modo controllato, ma subiamo delle interferenze da quelle nostre reti che scattano inconsciamente cercando di farci agire secondo i vecchi automatismi.  Per illustrare con un esempio come queste interferenze possano  essere più devastanti di quanto possiamo immaginare, riassumo brevemente uno degli esperimenti storici sui processi automatici, eseguito da Richard Shiffrin e Walter Schneider nel 1977 e pubblicato sulla rivista scientifica Psychological Review.

I due ricercatori reclutarono dei volontari a cui far imparare un compito: guardare delle schermate di lettere e riconoscere se contenessero delle consonanti comprese fra B ed L. La prima volta che i volontari eseguivano il compito richiedeva un certo sforzo e tempo. Dopo numerosissime schermate (2100, per la precisione), le persone come prevedibile diventavano efficientissime (grazie allo sviluppo di appositi processi automatici). Ma la parte interessante arriva dopo. Giunti alla 2100sima schermata,  veniva comunicata ai partecipanti una modifica al compito: bisognava ora riconoscere se le schermate contenevano delle consonanti comprese fra Q e Z (non più fra B ed L).  Verrebbe da dire: beh, ora perderanno un po’ di efficienza ma alla peggio regrediranno alle performance iniziali di quando avevano svolto il compito la prima volta. E qui accade il fatto sorprendente: non solo le performance crollano, ma diventano peggiori di quelle della prima volta che si e' svolto il compito. Il processo automatico che si è strutturato va ad interferire con lo svolgimento della nuova versione del compito e servono numerosissime esecuzioni della nuova versione del compito  per riuscire un po’ alla volta ad eliminare l’interferenza (nell’esperimento, occorreva risolvere ben 1000 schermate per poter soltanto recuperare il livello di prestazioni della prima volta che era stato eseguito il compito). In altre parole, una volta che si è creata una rete deputata ad eseguire un processo automatico nel nostro cervello, riuscire a smantellarla richiede uno sforzo non banale e del tempo corrispondente.

I concetti che ho riassunto in questo pezzo dovrebbero far parte del bagaglio di conoscenze di base di qualsiasi progettista di interfacce utente, spingendolo ad esercitare cautela prima di  modificare un’interfaccia che gli utenti sono abituati ad usare da anni. Purtroppo questi concetti sono invece ignoti a molti progettisti e a volte le interfacce vengono modificate solo per dare parvenze di novità e rinnovamento senza eseguire una valutazione del rapporto costi/benefici per l’utente.

E’ quindi bene che l’utente sia cosciente dei fenomeni che ho citato e non si lasci trascinare in immotivati cambi di interfaccia che rubano fette consistenti di tempo ed energie senza dare vantaggi precisi in cambio. Un altro buon motivo per conoscere pregi e difetti dei processi automatici è il loro ruolo pervasivo in tutto ciò che facciamo, dalla relazioni sociali alla miriade di decisioni che prendiamo quotidianamente. Ad esempio, in un precedente pezzo avevo analizzato gli effetti dei processi automatici di fronte al sovraccarico informativo a cui ci sottopone la rete.

© 2010 Luca
Chittaro, Nova100 – Il Sole 24 Ore
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