Il nonluogo del ventunesimo secolo

Pc_screen_s Lavorando in un settore multidisciplinare come quello dell’Interazione Uomo-Macchina,  e’ possibile incontrare, dialogare e lavorare assieme con persone di diversa formazione: psicologi, informatici, ergonomi, sociologi, designer grafici, designer industriali, interaction designer. Qualche giorno fa, sono stato intervistato da Extrart,  rivista di arte contemporanea, e come spesso accade quando mondi diversi si incontrano, ne sono nate riflessioni inaspettate che non avrei fatto se avessi parlato con un tecnologo.

Ad esempio, ho avuto modo di riflettere sul concetto di nonluogo (proposto da Marc Augé).  Penso infatti che nel secolo da poco iniziato, il catalogo dei nonluoghi tradizionali (come aeroporti, centri commerciali, hotel,…) si sia ormai arricchito di un nuovo, diverso ed importante rappresentante: l’interfaccia utente. L’interfaccia, soprattutto per chi ormai usa dispositivi digitali sempre e dovunque, è  forse diventata il nonluogo per eccellenza, dove si vive una parte crescente della propria vita, che per alcuni ha preso la forma di nomadismo tecnologico. E le persone, consciamente o inconsciamente, se ne rendono conto. Da qui, la crescente richiesta di sempre maggiori possibilità di personalizzazione dell’interfaccia da parte degli utenti, per potere trasformare il “non-luogo” in una propria “casa”. Ed anche il crescente coinvolgimento nell’Interazione Uomo-Macchina di persone che provengono dal mondo del design e dell’arte, non solo da quello della tecnologia. Ad esempio, Dan Saffer, nel suo libro “Design dell’interazione”  qualifica come elementi fondamentali dell’interaction design il movimento, lo spazio, il tempo, l’aspetto visivo, la consistenza fisica, il suono ed usa aggettivi come ludico e piacevole nel valutare gli effetti di un buon interaction design. Si sta quindi diffondendo un modo di guardare alla creazione dell’interfaccia molto diverso da quello del tecnologo e dell’usabilità classica: volendo stabilire un’analogia con la progettazione di luoghi fisici, è più vicino alla prospettiva dell’architettura che a quella dell’ingegneria civile. E l’Interazione Uomo-Macchina mira a proporre delle metodologie che possano integrare sinergicamente le due visioni.

Se  vi interessa leggere l’intervista completa la trovate a questo link.

  • laura |

    lo stavo per scrivere nel mio blog….

  • Federico Bo |

    Mi associo al commento precedente.
    Due strade per le interfacce?
    Una “ingegneristica” in cui la funzione annulla non solo l’estetica ma anche l’interfaccia stessa; l’interfaccia diventa invisibile (non luogo), mediatrice nascosta tra il mondo fisico e quello digitale, traduttrice discreta di linguaggi e protocolli, tra l’Uomo e la Macchina.
    L’altra strada protesa verso l’architettura, strada che vede nell’interfaccia una nuova opportunità di studio delle forme, dei colori, dello spazio a misura d’uomo/macchina. Funzione “funzionale” all’estetica, interazione soggetta all’apparenza, costruzione di uno spazio comune, famigliare (casa) tra il fisico ed il “meta”fisico.

  • Antonio Lieto |

    Bellissimo post. Molto interessante anche l’intervista.

  Post Precedente
Post Successivo