New York, 1978: alla City University, una persona sta facendo delle fotocopie, quando viene interrotta da uno sconosciuto che le chiede di usare la fotocopiatrice. Sembra una normale scena di vita quotidiana, ma lo sconosciuto è un ricercatore in incognito, che fino a pochi istanti prima era nascosto in una stanza a spiare la fotocopiatrice, in attesa che qualcuno andasse ad usarla. Nell’arco di qualche giorno, la scena si ripete con 120 “vittime” diverse, ma con una piccola differenza:
1) ad alcune persone, viene semplicemente chiesto “Mi scusi, posso usare la fotocopiatrice?”;
2) ad altre viene invece fornito un motivo sensato per farsi lasciare il posto: “Mi scusi, posso usare la fotocopiatrice perché sono di fretta?”,
3) per altre ancora la domanda sembra fornire un motivo ma in realtà si limita a ribadire il desiderio di usare la macchina: “Mi scusi, posso usare la fotocopiatrice perché voglio fare delle fotocopie?”.
Il ricercatore in incognito è agli ordini di Ellen Langer, docente di psicologia ad Harvard, che ha concepito l’esperimento per capire se le persone possono essere influenzate semplicemente dalla struttura delle frasi che ascoltano, invece che dal reale contenuto informativo delle frasi stesse. Se così fosse, allora sarebbe possibile costruire delle frasi basate su informazione placebo, cioè informazione irrilevante o che reitera l’ovvio rispetto a quanto già detto, ma che producono il risultato desiderato grazie a come sono strutturate. In particolare, nell’esperimento della fotocopiatrice, l’ipotesi della Langer era che le due richieste strutturate con la parola chiave “perché” avrebbero avuto maggior successo, a prescindere dal fatto che le informazioni fornite dopo il “perché” fossero state rilevanti oppure informazione placebo.
E sorprendentemente fu quello che accadde: mentre con la richiesta priva della struttura a “perché” si riuscì ad ottenere la cessione della fotocopiatrice nel 61% dei casi, le richieste strutturate a “perché” si rivelarono molto più efficaci (rispettivamente 91% e 90% di successo), sia quando il motivo era plausibile sia quando era solo informazione placebo.
Trent’anni dopo, ai giorni nostri, un gruppo della Northern Illinois University diretto da Scott Key ha deciso di ripetere l’esperimento della fotocopiatrice. Dopo tutto, la società si è trasformata nei decenni trascorsi ed il modo in cui ci relazioniamo con gli sconosciuti potrebbe essere ora improntato ad una maggior diffidenza. Ma il nuovo studio voleva anche raccogliere ulteriori dati per capire meglio cosa determina la vulnerabilità di una persona all’informazione placebo. Per questo motivo, ogni persona avvicinata alla fotocopiatrice era reduce da un test di personalità, a cui i ricercatori avevano accesso. Inoltre, venivano misurati i tempi di risposta delle persone alla richiesta dello sconosciuto. I risultati del nuovo esperimento, pubblicati nel 2009 dalla rivista internazionale Personality and Individual Differences, confermano l’efficacia della richiesta placebo anche nel XXI secolo, con percentuali simili a quelle degli anni ’70. Non sono emerse relazioni chiare fra la personalità dei soggetti e le loro reazioni all’informazione placebo, ma è stata invece identificata una correlazione fra il tempo impiegato a rispondere alla richiesta placebica ed il successo della stessa: più tempo impiegano le persone a rispondere alla richiesta placebo, più è probabile che si rifiutino di cedere la fotocopiatrice. Parte di questo tempo è presumibilmente dedicata ad analizzare in modo più attento la richiesta, notando l’irrilevanza dell’informazione placebo.
E’ quindi prestando una maggior attenzione ai messaggi che riceviamo che possiamo imparare a riconoscere quando viene usata informazione placebo per manipolarci. Un secondo esempio di tecnica placebica puo' riguardare la parola chiave “quindi”: la tecnica consiste nell’esprimere un concetto, aggiungere un “quindi” e poi reiterare il concetto precedente usando altre parole. Ad esempio, immaginiamo che un intervistatore chieda spiegazioni ad un politico su una vicenda specifica dicendo “In questa vicenda, il vostro partito è stato accusato di scarsa sensibilità verso i diritti dei cittadini”. Se il politico rispondesse soltanto “Noi abbiamo sempre avuto grande rispetto per i diritti dei cittadini”, darebbe agli ascoltatori la sensazione di non essere entrato nel merito della questione. Allora, seguendo una strategia placebica, è più probabile che venga usata una frase tipo: “Noi abbiamo sempre avuto grande rispetto per i diritti degli italiani, quindi è falso affermare che siamo insensibili ai diritti dei cittadini”. All’ascoltatore poco attento, la struttura della frase lascia la sensazione di aver sentito sviluppare un ragionamento dove l’ultima affermazione è stata dimostrata come conseguenza logica della premessa, ma quello che in realtà è accaduto è che l’interlocutore ha semplicemente iterato 2 volte l’affermazione.
Concludendo, qualsiasi sia la tecnica usata, come difendersi dagli effetti dell’informazione placebo? Come suggerisce il recente studio: i) prendersi il tempo necessario, ii) pensare a cosa ci è stato concretamente detto. La pigrizia mentale, la disattenzione e la fretta nel rispondere all’interlocutore (o accettarne le tesi) sono per noi cattive consigliere. Ma sono preziose alleate di qualsiasi persuasore placebico e fortemente incentivate dal sovraccarico informativo in cui viviamo.