La ricerca sugli effetti dei videogame, che va avanti da piu' di un decennio, cerca nuove strade (incluse le neuroscienze) per perfezionare le proprie scoperte. Ed e' grazie all'analisi dell'attivita' cerebrale che un nuovo articolo, in uscita sul numero di Settembre della rivista internazionale Journal of Experimental Social Psychology, ha stabilito un particolare legame fra due effetti che vengono tipicamente attribuiti ai video game violenti: la desensibilizzazione alla violenza e l'aumento dell'aggressivita' nel giocatore.
Il gruppo di ricerca (composto da docenti delle Universita' del Missouri e dell'Ohio) ha sottoposto ad un elettroencefalogramma 70 studenti dopo che avevano giocato ad un video game su una Playstation per 25 minuti. Per meta' degli studenti il videogioco era violento (Call of Duty: Finest Hour, Hitman: Contracts, Killzone, oppure Grand Theft Auto: Vice City), per l'altra meta' invece il gioco non era violento (Jak and Daxter: The Precursor Legacy, MVP Baseball, Tony Hawk's Pro Skater 4, oppure Sonic Plus Mega Collection). L'analisi dell'attivita' cerebrale si e' concentrata sul cosiddetto potenziale evento-correlato P300, cioe'' una particolare forma d'onda che il cervello produce quando valuta o categorizza uno stimolo ricevuto dall'esterno. Dopo aver giocato al videogioco, i giocatori guardavano delle sequenze di immagini, alcune violente ed alcune neutre, mentre i ricercatori registravano l'ampiezza del P300 provocato nel cervello dalla vista di quelle immagini.
Infine, i giocatori venivano sottoposti ad un test classico di aggressivita' nel quale si fa credere al partecipante che ci sia una persona in un'altra stanza (ma in realta' non c'e' nessuno) contro cui competere in un test di prontezza di riflessi al computer e si fa decidere al partecipante il volume e la durata di suoni fastidiosi con cui colpire l'avversario dell'altra stanza quando perde.
Gli autori della ricerca sostengono che i risultati ottenuti sono l'evidenza piu' forte trovata finora di un nesso fra giochi violenti e desensibilizzazione verso la violenza. In particolare, l'esperimento ha mostrato che la reazione del cervello del giocatore alla vista di immagini violente era influenzata sia dal tipo di gioco a cui aveva appena giocato (il cervello di chi aveva giocato ad un gioco violento reagiva con dei P300 piu' piccoli di chi aveva giocato ad un gioco non violento) , sia dalle abitudini personali per quanto riguarda i videogiochi (il cervello di chi gioca molto nella sua vita a videogiochi violenti reagiva con dei P300 piu' piccoli di chi gioca poco e lo faceva in ogni caso, a prescindere da che tipo di gioco aveva usato negli ultimi 25 minuti).
Passando poi ai risultati del test di aggressivita', lo studio ha individuato che tanto piu' piccoli erano i P300 rilevati nell'elettroencefalogramma (indicativi della desensibilizzazione), tanto piu' aumentava l'aggressione verso l'avversario nel test di aggressivita'. Sembrerebbe quindi che il tipico risultato riportato da numerosi esperimenti ("i videogame violenti aumentano l'aggressivita') passi attraverso una minore reattivita' del cervello ai contenuti violenti.
Mentre il risultato per i giocatori non frequenti di videogame violenti e' chiaro, il fatto che i giocatori frequenti mostrassero sempre una minor reattivita' alla visione di contenuti violenti (a prescindere dal tipo di gioco usato negli ultimi 25 minuti) si presta a diverse interpretazioni. Una e' quella che l'aver giocato tanto nella propria vita a videogiochi violenti abbia causato una desensibilizzazione permanente, una sorta di assuefazione ai contenuti violenti. Ma potrebbe anche essere invece che la ridotta risposta P300 sia una caratteristica del cervello che causa un'affinita' con i videogiochi violenti e l'abitudine di usarli frequentemente. Oppure, come suggeriscono i ricercatori in chiusura d'articolo, potrebbe esserci un terzo fattore sconosciuto a causare separatamente nei giocatori frequenti di videogiochi violenti sia un'affinita' verso i contenuti di quei giochi sia una ridotta risposta P300 nel cervello (gli autori non si sbilanciano con esempi, quindi possiamo lasciar libera la fantasia: un'infanzia traumatica? fattori genetici? una particolare dieta?…).
Insomma, un passo avanti e' stato compiuto, ma c'e' spazio per un altro decennio di ricerche.
© 2011 Luca Chittaro, Nova100 – Il Sole 24 Ore.