Mi ha spesso incuriosito il fatto che una delle
prime cose di cui si preoccupano molti acquirenti di un nuovo telefonino o di
un computer (anche quelli tecnicamente più inesperti) sia di capire come
memorizzare fotografie dei propri cari sullo sfondo e/o in apposite cartelle.
Lo fanno in modo spontaneo, senza particolari ragionamenti, ma perché? E’ soltanto
simpatico, oppure è solo una specie di superstizione (le foto nel telefonino
come amuleto tecnologico porta-fortuna) o di speranza illusoria (averli nel
telefonino li rende più vicini)? Oppure c’è qualcosa di più e l’uso di questa
funzione tecnologica ha dei benefici reali?
Mi è già capitato di parlare in passato del fenomeno
del priming: i contenuti a cui ci
esponiamo influenzano la nostra percezione della realtà ed i nostri
comportamenti. A volte la cosa è evidente (ad esempio, essere esposti ad
immagini di incidenti aerei aumenta la percezione di rischio e l’apprensione
verso il volo), ma più spesso è sottile e sorprendente: anche una brevissima esposizione a dei contenuti
(parole o colori, fotografie o video,…) e addirittura apparentemente irrilevanti come un banale punto esclamativo (v.
esperimento di cui avevo parlato tempo fa) influenza il nostro successivo
comportamento e la percezione della realtà.
Quindi ci si può aspettare che un’esposizione ad
immagini di persone care (sicuramente molto più rilevanti di un semplice punto
esclamativo) abbia degli effetti ancora più potenti. Un caso estremo noto
riguarda le vittime della tortura, che spesso riportano di essere riuscite a
rendere più sostenibile il dolore che veniva loro inflitto, visualizzando
mentalmente immagini di persone care. Si potrebbe però obiettare che questo
esempio è talmente estremo da non far testo nella vita di ogni giorno.
Ma ora una ricerca, pubblicata sul numero di
Novembre 2009 della prestigiosa rivista Psychological Science, fornisce
evidenza a favore degli effetti positivi delle foto sopracitate, anche per
situazioni non estreme. Sarah Master ed i suoi colleghi della University of California, Los Angeles (UCLA) hanno eseguito un esperimento in cui 25 donne sono state sottoposte a degli stimoli termici moderatamente dolorosi. L’induzione del dolore veniva ripetuta in situazioni diverse. In tre situazioni, la donna era in contatto fisico con qualcosa, rispettivamente: (a) teneva la mano del proprio partner, che era nascosto da una tenda, (b) teneva la mano di uno sconosciuto nascosto dalla tenda (ed era informata del fatto che si trattasse di uno sconosciuto), (c) teneva in mano una palla morbida da poter stringere. Nelle altre 3 situazioni, la donna guardava delle immagini sullo schermo di un computer, rispettivamente: (d) la foto del proprio partner, (e) la foto di un uomo sconosciuto della propria etnia, (f) la foto di un oggetto (una sedia).
Sia nelle situazioni di contatto fisico che in quelle di visualizzazione fotografie al computer, si è ottenuto lo stesso esito. Tenere fisicamente la mano del partner (o guardare una sua fotografia sul computer) porta ad una riduzione del dolore significativa rispetto a tenere la mano di una sconosciuto (o guardarne la fotografia) oppure tenere un oggetto (o guardarne la fotografia).
Il risultato interessante riguarda la visualizzazione della fotografia del partner al computer, che ha dimostrato di avere la stessa efficacia del tenere fisicamente la mano del partner. Quindi il priming con fotografie di persone care funziona, tanto da indurre la Master ed i suoi colleghi a suggerire di portarle con sé per le situazioni dolorose in cui la presenza fisica delle persone ritratte non sia possibile.
I designer di interfacce (per PC,
telefonini, etc.) hanno ora un buon motivo in più per curare la facile
usabilità nei loro software della memorizzazione, reperimento e visualizzazione
di immagini personali.