Quanto possiamo fidarci di ciò che ci dicono i nostri contatti su Messenger, Skype e gli altri strumenti di instant messaging?
Capire come si comportano le persone nella comunicazione mediata dal computer è uno dei temi di ricerca della disciplina dell’Interazione Uomo-Macchina. E fra i vari comportamenti possibili, il ricercatore statunitense Jeff Hancock si è specializzato sul mentire in rete e su cio' che chiama “digital deception" (inganno digitale). Nell’articolo che, assieme ai colleghi della Cornell University, ha presentato all’ultimo congresso mondiale sull’Interazione Uomo-Macchina (ACM CHI 2009), si è concentrato proprio sull’Instant Messaging (IM).
Nella ricerca descritta, 43 utenti (fra i 18 ed i 29 anni) hanno consentito a far registrare digitalmente le proprie conversazioni in IM. Inoltre, uno speciale software installato sulle loro macchine chiedeva, dopo ogni frase scritta in IM, di indicare se erano stati sinceri o quanto erano stati bugiardi in quella frase, su una scala che prevedeva vari livelli di intensità. Trattandosi a tutti gli effetti di un’intercettazione, i dati venivano spediti ai ricercatori in forma anonima in modo che il nome degli interlocutori nelle conversazioni non fosse recuperabile.
Una volte raccolte circa 7000 frasi con classificazione di sincerità, Hancock e colleghi hanno proceduto con un’analisi statistica che ha evidenziato come circa 1 messaggio ogni 10 non era sincero (più specificamente, il 10,9% dei messaggi non era sincero).
Alcune conversazioni bugiarde erano delle semplici trasposizioni di quelle a cui si può assistere nel mondo fisico. A titolo di esempio da manuale, traduco uno stralcio di una delle conversazioni IM registrate con annessa classificazione delle proprie frasi da parte dell’utente coinvolto nello studio (il numero zero corrisponde a “non sto mentendo”, mentre 5 è il massimo livello di bugia):
A: dobbiamo parlare
B: di cosa? (0)
A: ti ho vista con un altro ragazzo l’altra sera
B: no, non mi hai visto! (5)
A: si, eri con [nome rimosso]
B: no, non ero. (5)
A: vi ho visti al [nome del bar rimosso]
B: non sono stata al [nome del bar rimosso] ieri sera (5)
La cosa che ha colpito invece il gruppo statunitense è stata che, andando a classificare i tipi di bugie raccontate, è emersa come fetta particolarmente consistente (pari a circa il 20% delle bugie) quella delle cosiddette “butler lies” (le bugie del maggiordomo), cioè bugie raccontate per evitare una nuova conversazione (ad esempio, “Scusa, sto studiando”) oppure terminare una conversazione esistente (ad esempio, “OK, ritorno al lavoro”) oppure dare una spiegazione di precedenti comportamenti comunicativi (ad esempio, “ho visto che mi hai chiamato ma non avevo il cellulare con me”).
Si possono trarre diverse considerazioni da questo risultato. Da un lato, esso evidenzia come gli utenti vadano a gestire l’inevitabile fatto che tenere acceso un IM rischia di sovraccaricarli in attività di conversazione, ricorrendo a bugie che consentano in modo educato di iniziare e terminare le conversazioni quando desiderano. Dall’altro, le attuali interfacce che gli IM propongono per indicare la propria disponibilità alla conversazione non sembrano funzionare poi così bene: alcuni utenti non tengono aggiornato il proprio stato di disponibilità, alcuni chiamanti lo ignorano.
Ma va sottolineato anche che tali interfacce non sono abbastanza sofisticate da permettere di definire il reale insieme di regole sociali che l’utente usa per gestire le possibili conversazioni. Ad esempio, si dovrebbe poter istruire il proprio IM con regole personalizzate del tipo: per l’insieme di contatti X mostrami sempre disponibile; per l’insieme di contatti Y mostrami disponibile solo in orario d’ufficio, altrimenti mostrami scollegato; per l’insieme Z, mostrami disponibile quando sono sul computer di casa o dal mobile; per l’insieme W non mostrarmi mai disponibile nei prossimi due giorni, e così via a seconda delle esigenze personali di ogni utente.
In modo tale da far svolgere il compito del maggiordomo mentitore al software.