Tempo fa ho scritto di assistenti virtuali a cui fare domande via Web, ma il rapporto si può rovesciare ed avere intervistatori virtuali che fanno domande all'utente. Una collaborazione fra il Dipartimento di Psicologia e quello di Marketing dell'Università di Guelph (Canada) ha realizzato un esperimento dove 123 studenti (60 maschi e 63 femmine) sono stati intervistati da un software via messenger. Le interviste riguardavano questioni concernenti la vita universitaria, come gli aspetti economici o lo stress, e agli studenti non veniva detto che a porre le domande via messenger era un software invece che un intervistatore umano.
I ricercatori canadesi hanno voluto provare una piccola modifica: per alcuni studenti il nome dell'intervistatore su messenger era maschile (John), per altri era invece femminile (Katie). E questa piccola variazione ha avuto degli effetti non da poco, in particolare sugli studenti maschi. Alla fine dell'intervista veniva chiesto agli studenti di esprimere dei giudizi sull'intervistatore (livello di conoscenza, competenza, esperienza, addestramento,…). Nonostante il software si comportasse sempre nello stesso modo, gli studenti maschi intervistati hanno dato voti significativamente più alti all’intervistatore quando appariva con un nick maschile invece che femminile. L’effetto invece sulle studentesse è stato debole e non statisticamente significativo. I maschi del campione hanno quindi applicato un automatismo mentale (male dominance heuristic) nel giudicare migliore il “maschio” che svolgeva un’attività professionale, nonostante non ci fosse alcuna variazione nello svolgere quell’attività fra il nick maschile ed il nick femminile.
Ripensando agli anni ’90, quando la comunicazione mediata dal computer (CMC) venne aperta al grande pubblico, c’era chi preconizzava un mondo futuro dove la CMC avrebbe ridotto l’impatto delle differenze di genere, razza e status sociale, creando maggior uguaglianza. Ma le ricerche svolte invece negli ultimi anni (inclusa quella riassunta sopra) tendono a contraddire quegli ottimismi iniziali: non solo le differenze rimangono (vedi anche il pezzo a questo link per un esempio che riguarda Myspace), ma in alcuni casi sono addirittura amplificate, come in ciò che la psicologia sociale chiama gender stereotyping (cioè attribuire delle caratteristiche al nostro interlocutore solo sulla base del fatto che sia maschio o femmina, senza nessuna reale verifica che veramente possegga le caratteristiche che immaginiamo). La cosa che colpisce di più è l’estrema facilità con cui nella CMC si riesce ad attivare il gender stereotyping rispetto alla comunicazione faccia a faccia, ad esempio cambiando un semplice ed unico carattere sullo schermo (Mario che diventa Maria o viceversa).
La questione non ha solo interesse teorico: il motivo per cui la ricerca sopracitata coinvolge un Dipartimento di Marketing è che le aziende ricorrono sempre di più alla CMC (e-mail, chat on-line, social network,…) nel relazionarsi con i propri clienti. In quel contesto, ciò che vede il cliente del suo interlocutore (umano o software che sia) è molto limitato (tipicamente solo un nome) ed è quindi di interesse dell’azienda comprendere se e come quei pochi dettagli hanno un effetto sugli utenti.
Ma si può estendere il discorso a tutti i tipi di relazioni on-line, dove gli effetti del nome possono essere ancora più potenti dell’esperimento canadese. Ad esempio, chi ha familiarità con le dinamiche delle chat di discussione generica sa che entrando con un nick maschile molto probabilmente non susciterà particolari reazioni, mentre ricollegandosi alla stessa stanza con le stesse persone usando un nick femminile, è molto probabile che le persone le diano il benvenuto nella finestra pubblica, o le inviino richieste di discussione privata. Sebbene non abbia eseguito un test approfondito in questa direzione, non è difficile ipotizzare che anche i temi, i toni e gli atteggiamenti di questi interlocutori possano essere poi molto diversi a seconda del genere del nick scelto.
Insomma, nella CMC, il cambio di una sola vocale in un nick è sufficiente a creare aspettative e comportamenti automatici sia nelle interazioni professionali che in quelle più informali. E dietro a quel nick può anche esserci solo un software e/o una tattica di persuasione.