Perché le persone usano Foursquare? Alcuni comportamenti inaspettati

Foursquare italia Foursquare, che ha recentemente compiuto due anni,  è il più popolare servizio di social location-sharing, con il quale rendere nota la propria posizione a tutte le persone che risultano nostri “amici”. Ma chi non lo conosce bene si chiede con curiosità perché mai un consistente numero di possessori di smartphone (iPhone, Blackberry, Android,…) dedichi giornalmente una parte del proprio tempo a segnalare in rete i luoghi dove si trova (fare “check-in” in quei luoghi, nel gergo di Foursquare).

Per rispondere a questa domanda, Janne Lindqvist ed altri quattro ricercatori della Carnegie Mellon University hanno studiato un campione di 200 utenti di Foursquare, evidenziando le motivazioni per cui il servizio è usato ed i modi in cui viene usato. Le prime sono tutto sommato prevedibili e coincidono con le funzionalità del servizio, quindi le riassumerò molto velocemente; dai secondi emergono invece comportamenti inaspettati sui quali mi soffermerò di più.

Motivazioni per cui le persone usano Foursquare. Sono essenzialmente quattro: (i) sociali (rendere possibili incontri imprevisti con amici perché ci si trova nello stesso luogo o anche fare nuove conoscenze che condividano i propri interessi), (ii) ludiche (Foursquare premia le persone più attive con badge, punti e la possibilità di esser nominato “sindaco” di un luogo dove fa check-in spesso), (iii) scoperta di luoghi (le persone che fanno check-in in un luogo di potenziale interesse per altri contribuiscono a renderlo noto, in particolare ristoranti e bar sono emersi come i luoghi dove gli utenti registrano più spesso la propria posizione), (iv) diario (tramite Foursquare, è possibile tenere traccia dei posti dove si è stati).

Quando gli utenti di Foursquare NON usano il servizio. Le cose si fanno più interessanti quando si analizza il comportamento degli utenti ed emerge che esistono dei luoghi che frequentano, ma che si guardano bene dal segnalare al servizio, evitando di fare check-in. Sono luoghi di diverso genere, ma ciò che li accomuna è che l’utente li percepisce come dannosi per la propria auto-rappresentazione in rete. Ad esempio, diversi partecipanti allo studio hanno riportato che non segnalano a Foursquare quando sono da McDonalds (o in altri fast food), mentre sono invece fieri di fare check-in in ristoranti più raffinati. Un altro luogo dove gli utenti evitano di segnalare la propria presenza sono gli studi medici (iniziare ad essere associati all’idea di malattia non rende socialmente attraenti). Alcuni utenti hanno riportato di usare la noia come criterio per decidere di non fare check-in: se un posto è noioso, non segnalano che lo frequentano (anche qui, se l’aggettivo “noioso” dei luoghi si va ad associare ai frequentatori abituali, quest’ultimi non vedranno aumentare la propria popolarità).  L’utente “anti-noia” evita ad esempio di fare check-in a casa o al lavoro per non dare l’impressione di uno che appunto è sempre a casa o sempre in ufficio. In sintesi, anche nell’uso di Foursquare emerge come cruciale la tematica dell’impression management (che ho spesso trattato, anche per quanto riguarda altri social network come Facebook: vedi questi link: link1, link2, link3).

Quando gli utenti di Foursquare REINVENTANO il servizio. I designer di qualsiasi tecnologia sanno bene che gli utenti la useranno in modi assolutamente non previsti dal progetto. Uno degli utenti Foursquare ha ad esempio riportato di usare il servizio “al contrario”, facendo check-in nei luoghi quando ne esce invece che quando ci entra, per paura di essere vittima di un ipotetico stalker (e dato che il 59% del campione ha riportato di avere totali sconosciuti fra i propri “amici” Foursquare, queste preoccupazioni sulla propria rintracciabilità non sono poi così folli).  Più in generale, gli usi imprevisti più riportati nello studio dell’università statunitense hanno riguardato le abitazioni private più che i luoghi pubblici. Si va da chi usa Foursquare come sistema per far sapere ad amici e parenti che è rientrato a casa sano e salvo (senza dover fare telefonate, magari a tarda ora, per dirglielo) a chi fa check-in a casa sua o a casa di suoi amici per segnalare che è disponibile per incontrarsi con la sua usuale combriccola. Questi comportamenti innescano poi degli effetti a catena anche sul versante ludico di Foursquare in cui può risultare che il “sindaco” di un’abitazione non è chi vive lì, ma l’amico che fa spesso check-in lì. Ed alcuni utenti hanno riportato la nascita di dinamiche di gioco basate su chi riesce a diventare il “sindaco” del maggior numero di  abitazioni dei propri amici.

© 2011 Luca Chittaro, Nova100 – Il Sole 24 Ore.

  • Stefano Di Persio |

    Ciao Luca,
    sul mio blog http://www.nxtbi.com ho postato un articolo tratto da libro di Simon Salt sul Social Location Marketing in cui si parla proprio dei motivi che spingono a fare il check-in. In sintesi: egocentrismo, autoaffermazione personale, altruismo, competizione, per ottennere premi e sconti.

  • kalamin |

    Ha ragione Chittaro. E’ noto (o dovrebbe esserlo) il principio del task-artifact cycle (mi vengono in mente Engelbart e Caroll, con contributi dalla visione simile).
    Io però qui sollevo un problema forse più grande del fatto se un principio del genere sia o meno trattato nei testi di HCI: il problema della trasferibilità di certi principi “astratti” (mi lasci dire) in prassi situate e embodied in sistemi concreti. E’ un problema non solo del nostro sistema didattico educativo (ma soprattutto del nostro) che certo va oltre l’ambito di questo post ma su cui la leggerei volentieri se volesse in futuro dedicare una sua riflessione a riguardo. Grazie.

  • LucaChittaro |

    @Kalamin:
    se non lo sanno, vuol dire che non hanno mai letto un libro di testo di Interazione Uomo-Macchina (o che se lo sono dimenticato)… 😉 😉 😉
    In effetti sarebbe piu’ preciso scrivere: “I designer di qualsiasi tecnologia *che conoscono bene il mestiere* sanno che gli utenti la useranno in modi assolutamente non previsti dal progetto”.

  • Kalamin |

    “I designer di qualsiasi tecnologia sanno bene che gli utenti la useranno in modi assolutamente non previsti dal progetto”.
    Ahimè, lo sanno?
    Tenner (1996), Rochlin (1997) e Markus et al. (2000) (per andare solo a memoria) hanno scritto di vari disastri derivanti proprio da questa scarsa consapevolezza della fluidità di qualsiasi deployment informatico.
    Direi piuttosto che, soprattutto nel dominio “social”, molti designer oramai ci sperano, ma in fondo solo perché ignorano quale delle funzionalità a cui hanno pensato loro farà davvero preferire la loro applicazioni a quella dei diretti competitor. Magari lo fa proprio qualcosa a cui non hanno pensato!

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