Attacco terroristico non-convenzionale: cosa accadrebbe in Italia?

Emergenza di massa realta virtuale serious game

In un momento in cui la parola terrorismo è tristemente tornata di attualità nel nostro paese, in un hangar nei pressi dell’Aeroporto di Ronchi dei Legionari, si è svolto venerdì scorso un convegno sulle Emergenze Non-Convenzionali al quale hanno partecipato più di 200 rappresentanti delle varie organizzazioni che devono rispondere a tali drammatici eventi (118, vigili del fuoco, protezione civile, forze dell’ordine, militari,…). Un’azione terroristica viene classificata come non-convenzionale quando fa uso di agenti biologici (ad es. virus), chimici (ad es. gas nervini) o radiologici (isotopi radioattivi), che possono essere inseriti nei tradizionali ordigni esplosivi o anche rilasciati in modi più discreti (si tratta tipicamente di sostanze inodori ed incolori, alcune delle quali di facile reperibilità, ad esempio alcuni componenti dei pesticidi per l’agricoltura possono essere usati in un attentato chimico). Situazioni di questo tipo possono essere create anche in modo involontario (senza una matrice terroristica) da incidenti industriali o a mezzi di trasporto che portino al rilascio nell’ambiente di tali sostanze. La domanda quindi non è teorica: come si gestirebbe in Italia un’emergenza non-convenzionale (dovuta ad atto volontario o involontario che sia)? Oltre ad aspetti specialistici non appropriati per questo articolo, alcuni interventi del convegno hanno fornito anche informazioni introduttive utili a chiunque per comprendere cosa accadrebbe.

Il dr. Elio Carchietti, direttore dell’Elisoccorso 118 della Regione Friuli V.G. e responsabile scientifico del convegno, ha aperto i lavori classificando le fasi temporali in cui evolve l’emergenza non-convenzionale: riconoscimento, salvataggio, decontaminazione, stabilizzazione, ospedalizzazione.

Nella prima fase (riconoscimento), ci si deve rendere conto di trovarsi di fronte ad un evento non convenzionale (ad es. nell’evento alla stazione Kasumigaseki in Giappone con oltre 500 persone intossicate, passarono 2 ore prima che ad un esperto venisse l’intuizione di trovarsi di fronte ad un attacco terroristico con l’uso del Sarin).  Il dr. Virgilio Costanzo del Ministero della Salute (Dipartimento di Prevenzione) ha spiegato come, per rendere più efficiente il riconoscimento, sia cruciale disporre di una rete di sorveglianza nazionale che monitori 24 ore su 24 cosa accade in tutti i Pronto Soccorso italiani per rilevare subito le anomalie (sorveglianza sindromica). Un sistema di sorveglianza sindromica è stato sperimentato in un’area limitata con successo (in Piemonte durante le Olimpiadi Invernali). La sua effettiva realizzazione a livello nazionale è invece ostacolata dall’incompatibilità fra i software di cui si sono dotate le diverse regioni italiane per i loro centri di Pronto Soccorso (nel caso della sorveglianza sindromica, il “federalismo” che permette ad ogni regione di dotarsi di strumenti diversi, non sembra quindi aiutare la causa della sicurezza). Un altro canale di informazione importante da considerare è quello dei centri Anti Veleni.

Nella seconda fase (salvataggio), ci si deve dotare velocemente delle sostanze che possono salvare le persone colpite (oppure che possono far guadagnare tempo rallentando l’azione degli agenti tossici) e che variano a seconda dello specifico evento (per questo è fondamentale completare correttamente la fase di riconoscimento). Il dr. Carchietti spiega come il lungo elenco di tali sostanze possa essere organizzato  in 2 grandi famiglie: antidoti (ad es. la pralidossima) e farmaci competitori (ad es. l’atropina).  Il dr. Costanzo illustra come in Italia il Ministero per la Salute sia responsabile per l’acquisizione e la distribuzione di tali sostanze alle regioni e come in ogni regione ci debba essere un deposito appositamente designato per la conservazione delle scorte antidoti (anche su questo tema si riscontra una certa variabilità di organizzazione da regione a regione). La fase di salvataggio richiede di compiere la prima scelta sulle singole persone colpite dall’evento, il cosiddetto triage. Si tratta cioè di capire quali vittime potrebbero godere di un miglioramento se venissero allontanate dall’area colpita e concentrare gli sforzi dei soccorritori su quelle persone. La gestione della fase di salvataggio può presentare dei notevoli problemi logistici. Un’interessante caso di studio presentato dal dr. Costanzo è quello delle navi da crociera. Dato che si sono già presentati casi di navi con migliaia di persone a bordo dove scoppiano epidemie di non particolare gravità (come quelle da Norovirus) ma a cui viene rifiutato l’attracco da varie nazioni, viene da chiedersi cosa accadrebbe se sulla nave da crociera salisse invece un passeggero contagiatosi volontariamente (attentatore suicida biologico) o anche involontariamente con Ebola o altri virus letali incurabili. In questi casi, è importante avere delle aree di quarantena (non facili da trovare) nei porti per far attraccare la nave in una zona protetta (senza far ovviamente scendere nessuno) e consentire un facile accesso ai soccorritori che nelle emergenze non-convenzionali indossano apposite tute e respiratori per entrare in contatto con le persone colpite. Gli aerei di linea presentano la stessa problematica, ma gli aeroporti sono più preparati in termini di aree di quarantena.

La terza fase (decontaminazione) consiste nel sottoporre le persone che si è deciso di portar via dal luogo dell’evento a delle procedure di lavaggio svolte mediante speciali tende sul luogo. Concettualmente è più semplice delle fasi precedenti, ma come spiega il dr. Carchietti presenta dei problemi logistici: le tende di decontaminazione non sono economiche, quindi ce ne sono poche a disposizione e vanno trasportate mediante un camion e montate sul luogo dell’evento. Al termine della decontaminazione, inizia la quarta fase (stabilizzazione) in cui si eseguono le prime procedure mediche in un posto medico avanzato sul campo. Le usuali azioni compiute dal personale del 118 nello stabilizzare un paziente sono rese qui più complesse dal fatto che i soccorritori indossano le tute protettive. Ad esempio, diventa difficile fare una normale iniezione se si indossano spessi guanti protettivi: per questo motivo, gli antidoti sono forniti con auto-iniettori che fanno scattare automaticamente un ago per consentire la somministrazione anche in condizioni estreme. Una volta decontaminato e stabilizzato, il paziente può essere trasportato in ospedale (fase di ospedalizzazione), in un’area di isolamento dai pazienti convenzionali. Nel caso la capienza degli ospedali venga saturata, si possono usare le palestre pubbliche come luoghi di ricovero dei pazienti.

Per confrontare la situazione italiana con quella di un’altra nazione rappresentativa, il prof. Kobi Peleg, direttore del Dipartimento di Gestione dei Disastri all’Università di Tel-Aviv, ha illustrato come le varie fasi sopra riassunte sono organizzate in Israele, nazione particolarmente sensibile al tema del terrorismo. Argomenti centrali nella sua presentazione sono stati l’importanza dell’addestramento (ad es., ogni ospedale israeliano deve organizzare una grande esercitazione di emergenza di massa all’anno a cui partecipano valutatori esterni che compilano una “pagella”: se l’ospedale non passa l’esame, deve ripetere l’esercitazione sostenendo di nuovo gli elevati costi ad essa associati) e l’importanza di fare tutti riferimento agli stessi ruoli e linee di comportamento (ad esempio, tutti gli ospedali devono avere le stesse scorte delle stesse attrezzature, di tute protettive, antidoti, etc.). Un interessante esempio di standardizzazione presentato ha riguardato il sistema informativo usato per l’identificazione delle persone colpite: a prescindere dall’ospedale in cui vengono ricoverate, i loro dati personali vengono inseriti in un sistema che collega in rete tutti gli ospedali israeliani (quindi se i familiari si rivolgono ad un qualsiasi ospedale possono sapere dove si trova la persona); quando i documenti non si trovano e la persona non è cosciente, viene fotografata e nel sistema informativo in rete va la fotografia che può essere così identificata dai parenti in un qualsiasi ospedale.

La presentazione svolta dal sottoscritto ha invece riguardato l’uso della realtà virtuale e dei serious game per preparare i soccorritori (sia tecnicamente che psicologicamente) alle situazioni che incontreranno nelle emergenze di massa (la figura in testa al presente articolo contiene alcuni fotogrammi di una delle simulazioni in realtà virtuale illustrate).

© 2012  Luca Chittaro, Nova100 – Il Sole 24 Ore